Intervista a Roberto De Simone, 1984

Estratto audio da intervista radiofonica. Trasmissione Città Notte Napoli, 1984, RAI NapoliNella prima parte dell’estratto Lucio Amelio e Roberto De Simone dialogano con Domenico Rea sul tema della Gatta Cenerentola. Nella seconda parte la versione integrale del Coro delle lavandaie di Roberto De Simone. Courtesy collezione privata della famiglia Amelio.  

diariodidaria #1

9 aprile 2025

È del 1984 questo estratto di un’intervista più ampia, andata in onda in diretta per la trasmissione  radiofonica della RAI Città Notte Napoli, condotta da Lucio Amelio, e mai più pubblicata. Ne rendiamo accessibile oggi un breve estratto dall’Archivio personale di Lucio Amelio per celebrare la figura del regista teatrale e musicologo Roberto De Simone, scomparso a Napoli lunedì, intervistato in questa occasione da Amelio in dialogo con Domenico Rea, appena prima della pubblicazione del suo famoso Demoni e Santi. Teatro e teatralità barocca a Napoli (Electa Napoli, 1984).

Provocato dalla paura di Domenico Rea che la Gatta Cenerentola, il celebre capolavoro di De Simone che lo ha reso famoso in tutta Italia, potesse diventare per lui uno scoglio insuperabile di carriera, il regista teatrale risponde come in effetti la fiaba della Gatta Cenerentola si inserisca in un contesto, quello del Barocco italiano, che testimonia ancora una volta la visionarietà del dialogo napoletano con i culti antichi.

Alle pendici di Napoli, infatti, i culti legati alla figura di Virgilio in epoca medievale faranno da fonte principale per quello che diventerà l’autore fondamentale della letteratura fiabistica mondiale, precursore di tempi (difatti riscoperto dalla penna critica contemporanea di Croce e Calvino) e saggio conoscitore dell’epoca in cui viveva: Giambattista Basile, nato a Giugliano in Campania nel 1583. Lo cunto de li cunti, che riporta già dalla versione originale la prima attestazione della storia della Gatta Cenerentola, è edito tra il 1634 e il 1636 e sapientemente opera un gioco ironico di rovesciamento della tradizione letteraria precedente, non solamente attraverso la scelta originale dell’utilizzo della lingua napoletana per la narrazione, ma soprattutto per l’analisi contemporaneissima della società che Basile osservava intorno a sé.

La tematica principale dell’intera opera ruota attorno alla presenza costante della fortuna, che può manifestarsi o no ma, differentemente al topos della fortuna al quale ci avevano abituati gli autori precedenti a Basile, la sua manifestazione è sempre indipendente dal merito del personaggio che la riceve. Una grazia rivelata che si manifesta al primo offerente, non al più meritevole

Eccoci quindi di fronte alla storia di Zezolla, la nostra protagonista trasformata in eroina dalla Cenerentola disneyana a cui siamo più abituati, figlia di un re e di una arcigna matrigna, la quale viene da lei uccisa su indicazione dell’istitutrice di Zezolla, poi data in sposa al padre.  Sembra la narrazione di un passaggio positivo: un’aiutante moralmente giusta che viene premiata diventando regina. Nella pagina dopo la verità: il piano era stato architettato dalla istitutrice ai danni di Zezolla con lo scopo di accaparrarsi il ruolo di nuova matrigna e continuare le vessazioni nei confronti della protagonista, nuovamente tornata schiava. 

La vicenda prosegue indisturbata nello stile di Basile, che sulle sorti della matrigna non torna più: la nostra Gatta Cenerentola ottiene il lieto fine e il suo bel principe (perdendo però non la scarpetta di cristallo, ma una pianella e cioè la caratteristica calzatura in stoffa con suola in sughero del periodo dello sfarzoso barocco napoletano, fabbricata all’epoca al vico dei Pianellari) e per la nuova matrigna in effetti punizione non c’è.

La fortuna, dunque, secondo Basile non bacia i meritevoli, ma chi ha il privilegio di poterla ricevere, indipendentemente dalla bontà delle proprie azioni.

Roberto De Simone – Ph courtesy Francesco Squeglia.

Caravaggio, Canestra di frutta.
Olio su tela, 1597-1600. Pinacoteca Ambrosiana, Milano.

J.M.W. Turner, Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi.
Olio su tela, 1812. Tate Britain, Londra.

G. Courbet, Gli spaccapietre.
Olio su tela, 1849. Distrutta durante il bombardamento di Dresda, 1945.

Non è un caso che questa tipologia di tematiche inizi a essere presente nella letteratura intorno al Seicento, considerando che proprio questi sono gli anni in cui Caravaggio sta operando una gigantesca riforma dei generi dell’arte visiva, sentendo l’esigenza di confrontarsi con quello che all’epoca veniva considerato un genere minore, ovvero la natura morta, in cui sempre però riesce a trovare un piccolo spazio per un granellino di polvere, oppure un acino d’uva leggermente appassito, fino ad arrivare una foglia rinsecchita. Sta così celando all’interno di un quadro apparentemente di serie b (come di fatto venivano all’epoca considerati i pittori che si cimentavano solamente coi cosiddetti generi minori, cioè natura morta, paesaggismo e pittura di genere) un tema biblico: quello della vanitas ovvero della transitorietà del tempo, che inesorabilmente passa ricordandoci come dobbiamo concentrare  il nostro valore sulla morale e non sui beni terreni, perché non saranno essi a procurarci un biglietto di sola andata in Paradiso e blablabla. 

Quello che Caravaggio sta facendo è ficcare a tutti i costi un soggetto all’interno delle sue opere, affinché esso possa posizionare la sua arte tra quella all’epoca considerata, stavolta, di serie a, ovvero l’arte dei generi maggiori (politica, religione e mitologia) con i quali potevano cimentarsi solamente i grandi Maestri. 

Questa ossessione per il soggetto caratterizzerà anche tutto il successivo Romanticismo, con l’esempio delle grandi tele di Turner, le quali svelano il loro soggetto solamente attraverso il titolo che a questo punto diventa elemento stravagante e fuori contesto. Che bisogno c’è ormai nel 1812 di produrre una tela di ben  146×237.5 cm (che è a tutti gli effetti un ennesimo confrontarsi turneriano con la sua rappresentazione ossessiva dello streben), per poi comunque intitolarla Annibale e il suo esercito oltrepassano le Alpi e ostinarsi a farsi accettare da quella che ormai, a questo punto, possiamo chiamare Accademia? 

Il primo a liberarsi dalla schiavitù della rappresentazione del soggetto è Courbet, che passando per strada in carrozza vede gli spaccapietre e così li rappresenta. Certo, nei giorni successivi, nel suo studio, in posa, siamo pur sempre nell’Ottocento. Ma disegnati per ciò che sono, senza l’ossessione di trovare loro un soggetto, rappresentati nella loro realtà. Questa storia evolverà in quello che è poi stato nominato il Salon des Refusés da chi noi oggi chiamiamo artisti d’avanguardia, che all’epoca dall’Accademia non avevano chance di farsi rappresentare. 

Tornando indietro quindi senza saltellare troppo avanti perché nel mio cervello tutto è collegato ma forse sono solo io ossessionata, Basile è in un momento iniziale di questo gigantesco processo di decostruzione delle logiche tradizionali. Siamo nel momento della comprensione che non esiste arte di serie a né di serie b, da qui l’utilizzo del napoletano. Ma così come nell’arte, non esistono classi sociali di serie a né di serie b. Se ci pensiamo, questi sono proprio gli anni che porteranno poco dopo alle grandi rivolte contro la vecchia nobiltà. 

Pare sia cambiato qualcosa? Traducendo qualche termine (ad esempio Accademia in Mercato e nobiltà in governo), a me sembra proprio di no. 

Già nel 1634 dunque a un autore del napoletano era chiaro come il nostro fosse un mondo in cui maggiore accesso al privilegio determina maggiore fortuna a ricordare come Napoli sia stata, dalle origini, città di resistenza ed eversione alle logiche imposte.  

Daria TDA

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